Massimo RAFFAELI ,“World Music”, n.51, Novembre-Dicembre, 2001
Residenza e musica
[...] Al centro ideale della topografia, e alla stregua del fenomeno musicalmente più rilevante, La Macina, gruppo fondato a Monsano nel 1968 da Gastone Pietrucci (che tuttora ne è voce e leader) il cuio archetipo etnomusicale si custodisce nel volume, firmato da Pietrucci stesso, Cultura popolare marchigiana-Canti e testi tradizionali raccolti nella Vallesina (Centro Studi Jesini, 1985), un’opera che per imponenza e rigore editoriale commemora la classica raccolta del Nigra, riassumendo un corpus di oltre seicento testi divisi per aree linguistiche, dai canti di lavoro a quelli rituali di questua, dalle filastrocche agli stornelli, dalle preghiere ai motti licenziosi, alle ballate [...]
" Le Marche sono state a lungo l’incarnazione della loro etimologia, cioè una terra di confine, una provincia, da cui gli intellettuali e gli artisti evadevano (a nord, verso Bologna e Milano o, più fatalmente, a sud, verso Roma) nelle forme di una vera e propria diaspora. Chi rimaneva amministrava una piccola eredità municipalistica, oppure assumeva maschere cosmopolite di seconda mano, così denunciando una disarmante subalternità. Erano la terra di Mondaldo Leopardi, chiusa e un poco bigotta, non quella di Giacomo, il transfuga che infatti le apostrofava nei termini del natìo borgo selvaggio. L’assenza di istituzioni pubbliche, la mancanza di giornali, la sostanziale latitanza dei pochi centri accademici, hanno alimentato per oltre un secolo l’emigrazione e l’esilio interno. Basterebbe l’esempio degli scrittori che se ne sono andati tutti, da bartolini a Volponi (un suo romanzo si intitola La strada per Roma…), da Matacotta a Ferretti e Di Ruscio: per costoro, le Marche erano appena un punto di avvio e potevano al massimo restare un mito scenografico (la cerchia delle colline, le siepi, i fiumi che scendono a pettine), un ambiguo paese dell’anima consacrato dalle icone secolari di Raffaello e Pergolesi, Rossigni e Gaspare Spuntini. Alla fine degli anni Settanta, cioè all’altezza dell’ultima rivoluzione tecnologica, quasi per cortocircuito, il quadro dei riferimenti storici e geografici è mutato di colpo, e totalmente,. Le nozioni di Centro e Periferia, Città e Provincia, sono venute meno fino ad identificarsi, la nozione astratta di altrove (e con essa la spinta all’evasione) si è tradotta nel qui, nella vocazione a risiedere, a scoprire e amare il proprio spazio-tempo, liberandolo sia dall’alibi folclorico sia dalle griffe di importazione. Il più grande poeta nato nella regione dopo Leopardi, Franco Scataglini, parlò di residenza, tracciando una poetica ma nello stesso tempo avanzando una domanda ineludibile: “Io ho cercato di mettere come si suol dire a punto la premonizione che portavo in me dell’idea di residenza, e che mi viene da un passo di Adorno in cui esplicitamente si parla di intellettuale residenziale in relazione al rapporto di Kant con la sua piccola Konigsberg prefigurante, come in una miniatura, il sogno della conciliazione. […] Dove vivi ogni giorno e ciò di cui vivi che costituisce con il tuo corpo la tua identità profonda: un luogo alienato, si capisce, come tutti i luoghi della terra, senonché l’alienazione è dell’uomo e, nei luoghi, anche i più desolati, c’è sempre un’ombra di beatitudine immemore”. Senza un simile atto di consapevolezza e di responsabilità radicale, non si spiegherebbero né la qualità né la quantità stessa delle intraprese artistiche e culturali che (insieme con un modello economico-produttivo poi divenuto poroverbiale) hanno caratterizzato la regione negli ultimi vent’anni, fino a configurarla come un caso nazionale. Retrospettivamente tale fioritura realizza la forma orizzontale e di continuo dislocata della rete, e basterebbe l’elenco delle riviste letterarie, degli scrittori: Umberto piersanti, Gianni D’Elia, Marco ferri, Gabriele Ghiandoni, Francesco Scarabicchi, Gilberto severini, Claudio Piersanti, Eugenio de Signoribus, Angelo Ferracuti, Clio Pizzingrilli, che oggi pubblicano, senza muovere un passo da casa, presso Einaudi, Garzanti, feltrinelli, Guanda oppure, a piacere, nelle squisite stamperie domestiche, da Quodlibet (Macerata) a Il lavoro editoriale e peQuod (Ancona). Ma è il caso pure degli artisti figurativi e plastici, dove l’eredità artigianale di un Valeriano Trebbiani può convivere coi segni teneramente spigolosi di Ezio Bartocci e, insieme, con l’immaginario di Enzo Cucchi, ai limiti del sulfureo e dell’imprendibile. Per parte sua, la musica nelle Marche è, fin dal settecento, il prodotto della rendita fondiaria dei cosiddetti “centri urbani murati” (dispersi a costellazione su un territorio dove vive poco più di un milione di abitanti) col reticolo di teatri (piccole e medie dimensioni, alcuni addirittura “condominiali”) che non ha riscontro altrove. Ciò non significa, tuttavia, che il passaggio di fase tra gli anni Settanta e Ottanta abbia qui ignorato la musica. Né deve ingannare la vocazione filologica delle imprese di lungo periodo, volte a conservare e a valorizzare il patrimonio classico, tipo il Rossigni Opera Festival di Pesaro. L’impronta militante si rivela, ad esempio, in due casi diametrali: Stefano Scodanibbio, di Pollenza, raffinato prosecutore di Berio e Stockhausen, confrontatosi di recente con le partiture poetiche di Vittorio Reta ed Edoardo Sanguineti; il gruppo dei Gang, dei fratelli Severini di Filottrano che, muovendo dall’esempio meteoritico dei Clash, hanno contaminato l’acustica rock con l’intransigenza dell’antagonismo etico-politico. Al centro ideale della topografia, e alla stregua del fenomeno musicalmente più rilevante, La Macina, gruppo fondato a Monsano nel 1968 da Gastone Pietrucci (che tuttora ne è voce e leader) il cuio archetipo etnomusicale si custodisce nel volume, firmato da Pietrucci stesso, Cultura popolare marchigiana-Canti e testi tradizionali raccolti nella Vallesina (Centro Studi Jesini, 1985), un’opera che per imponenza e rigore editoriale commemora la classica raccolta del Nigra, riassumendo un corpus di oltre seicento testi divisi per aree linguistiche, dai canti di lavoro a quelli rituali di questua, dalle filastrocche agli stornelli, dalle preghiere ai motti licenziosi, alle ballate. Fisarmonica, organetto, mandolino, chitarra, triangolo, cembalo e voce sono gli strumenti de La Macina, le cui aperture al presente (vale a dire il recente confronto con Fabrizio De Andrè, Rossana Casale, Valeria Morioni, i Gang) sono come il riflesso, o la vibrazione a distanza, di una radice altrimenti inabissata. In altri termini, La Macina dà compiutezza, assecondandone l’estro, a quanto è già inciso come parola, ritmo e melodia nella coralità della memoria popolare (braccianti, “filandare”, donne incarcerate in casa) che proprio l’omologazione neocapitalista, secondo la nera profezia di Pasolini, e il mélange postmoderno, dove tutto si mescola ed infine equivale a tutto, rischierebbero di cancellare. Se ne libera un sentire e testimoniare la vita nelle sue semplici occasioni, per cui carne e spirito, sensi, cuore e cervello, si reintegrano e liberamente si offrono: il pianto d’amore, la gioia del sesso, la sofferenza di chi sta in basso e l’orgoglio di chi sta in alto, il passare delle stagioni e le croci sul calendario, ecco i temi, si direbbe il plasma etnomusicale de La Macina. Antico eppure incombente (Scataglini giurerebbe residenziale) proprio perché ricollocato nel pieno rispetto della prospettiva spaziale e temporale. Ha dichiarato di recente Gastone Pietrucci: “Quando abbiamo iniziato pensavo fossimo in effetti alla fine. Tra me e Antonio Gianandrea, che raccoglieva canti nello jesino, c’era in mezzo un secolo di silenzio e di rimozione. E invece gli informatori si sono andati via via moltiplicando. […] Cantori che erano allo sbando, derisi nelle loro stesse campagne, si sono confrontati e incoraggiati, insomma si sono riconosciuti come tali e ad essi si sono uniti diversi giovani e alcune donne, che prima nei canti di questua, per esempio, non erano nemmeno pensabili. Nel mio schedario privato c’erano allora un centinaio di persone, oggi ce ne sono duemila. […] Lo dico anche se in altre regioni la situazione mi sembra meno viva rispetto a qui, dove si mantiene una radice o quella specie di ping-pong che deve stabilirsi fra cantori e informatori”. Un contatto, va aggiunto, che scansando le trappole sia del naturalismo (revival, culto reazionario delle piccole patrie) sia dell’intellettualismo (remake, fredda chirurgia digitale) riconcilia arte dotta e arte popolare dentro un equilibrio, o una pienezza di voce e suono, che può dirsi davvero umanistica".
Massimo Raffaeli, “World Music”, n.51, Novembre Dicembre, 2001