Roberto G. SACCHI ,Intervista a Gastone Pietrucci Folk Bulletin, Anno XIX, N. 237, Dicembre 2007
Intervista a Gastone Pietrucci E LE FESTE TORNARONO A VIVERE Una storia interessante, un esempio e un modello. Era ora di parlarne con la dovuta ampiezza, e l’artista e studioso marchigiano non si è fatto pregare…
A fianco della tua attività di cantante e leader indiscusso del gruppo La Macina, da circa quarant’anni ti occupi, con analogo impegno e passione forse maggiore, della rivitalizzazione di feste calendariali tipiche della tua regione, le Marche. Come ti sei avvicinato al mondo della tradizione “viva” e come hai pensato di poter contribuire ad un suo rilancio concreto, oltre che cantandola?
Iniziando la ricerca sul campo, nel lontano 1968 mi accorsi che tutti i nostri antichi riti, come la quasi totalità della cultura orale marchigiana, andavano inesorabilmente scomparendo, a causa delle profonde trasformazioni della società ed in particolare della polverizzazione della civiltà contadina: ormai defunzionalizzati sopravvivevano in larga parte solo in forma memorizzata, senza più alcun riscontro nella pratica attuale. Tutto questo sino al 1974, quando a Monsano (piccolo comune in provincia di Ancona) due informatori: mi fecero conoscere per la prima volta la loro “Passione” (ovvero la versione de “Le ventiquattro ore”) rammaricandosi che ormai non la cantava più nessuno. Allora, dando loro coraggio, li ho convinti a ricantarla proprio a Monsano, dove il canto era scomparso praticamente da molti anni. Così quasi per caso, ripetendo l’esperimento anche negli anni successivi, nel giro di pochi anni, la manifestazione si impose diventando a tutti gli effetti: Rassegna della Passione, che dopo essere ospitata per undici anni a Monsano, ha trovato la sua sede definitiva in un altro Comune dell’anconetano, Polverigi, dove ormai si effettua, con grande affluenza di pubblico, da ben trentatré anni. Sull’esempio della “Passione” ho riproposto a Morro D’Alba (An) dal 1983 la “Festa del Cantamaggio”, a Montecarotto (An) dal 1985 la “Rassegna nazionale della Pasquella” ed infine a Monsano dal 1988, per i bambini l’ “Incontro Regionale dello Scacciamarzo”, completando così nell’arco dell’anno, il totale recupero dei canti rituali di questua della cultura orale marchigiana. Posso dire, con estrema certezza, che grazie soprattutto a queste Rassegne, i pochi cantori e musicisti tradizionali di allora, demotivati e letteralmente allo sbando, hanno incominciato a riprendere coraggio, ad aver fiducia in sé stessi, a ritrovare quelle dignità o voglia “perdute” e a riprendere e ritrasmettere queste loro tradizioni delle quali ormai ci si “vergognava”. Con il risultato che molti di questi informatori ora sono richiesti e non più osteggiati e derisi dalla gente, diventando essi stessi protagonisti e trasmettitori, in altre occasioni di feste e ricorrenze popolari, di questa loro vitalità di cultura alle nuove generazioni. Un vero e proprio fenomeno di revival interno. La Macina poi ha contribuito, anche come modello, a rilanciare tutta questa rinascita, però, ripeto, in larga parte sono state le Rassegne annuali a diffondere e a rinverdire questa tradizione e a renderla veramente ancora “viva” e capace di creare attenzione e proseliti.
Di tutte queste ricorrenze, enunciaci brevemente caratteristiche e modalità di svolgimento. So di chiederti un improbo esercizio di sintesi, ma…
Le tre Rassegne sui canti rituali di questua della “Pasquella” , della “Passione”, e del “Cantamaggio” si svolgono tutte nell’arco di una intera giornata e tutte con lo stesso procedimento. Al mattino i Gruppi che arrivano, vengono mandati a fare la questua, portando casa per casa (come si faceva anticamente) il canto augurale, accompagnati da una guida del posto, in modo da coprire tutto il territorio della campagna e del paese. Questa del mattino è la parte più importante interessante ed affascinante, anche se la più “nascosta” e sicuramente la più difficile da seguire, perché i Gruppi, (seguendo ognuno un percorso) sono divisi e praticamente sparsi per tutto il territorio comunale. Per chi vuole seguire la questua del mattino, è consigliabile partire con un Gruppo e seguirlo passo passo, casa per casa, come faceva il grande fotografo Mario Giacomelli, (che “armato” della sua storica macchina fotografica, seguiva sempre il Gruppo Spontaneo di Fabriano (uno dei gruppi più interessanti ed “arcaici” di tutte le nostre Rassegne). Poi dopo il pranzo comunitario, nel pomeriggio si svolgono le varie Rassegne, in presenza di un pubblico numeroso, attento, competente e molto, molto partecipe, presentate dal sottoscritto. Quella di Montecarotto, del 6 gennaio, nel Teatro Comunale; quella di Polverigi della “Passione” sempre la Domenica delle Palme, al Teatro della Luna ed infine quella di Morro D’Alba del “Cantamaggio”, la terza domenica del mese di maggio, nella Piazza centrale del paese. Lo “Scacciamarzo” di Monsano, si svolge sempre l’ultimo venerdì del mese di marzo, ed essendo l’unico canto rituale di questua infantile, si sviluppa nel corso dell’intera mattinata con tutti i ragazzi delle Scuole Elementari del paese ed ogni anno con altri bambini ospiti, provenienti da varie Scuole Elementari delle Marche, che con i loro cortei festosi e rumorosi, invadono il piccolo paese, chiedendo casa per casa, le uova e piccoli doni, in cambio del canto augurale dello “Scacciamarzo”, o in caso di rifiuto con le inevitabili sequenza di maledizioni.
Alcuni di questi appuntamenti hanno avuto un successo immediato di pubblico e altri hanno presentato maggiori difficoltà di recupero dal parte della gente, oppure il tuo cammino di rivitalizzazione è stato sempre coronato da fortuna? E i tempi di riappropriazione, in genere, si sono rivelati lunghi o rapidi?
Praticamente tutti questi appuntamenti hanno avuto un successo quasi immediato e poi nel corso degli anni quasi travolgente. Pensa che con la “Passione” ci sono stati degli anni che avevamo ben cinquanta/sessanta gruppi di autentici e spontanei portatori della tradizione. Il mio provvidenziale intervento, quindi è avvenuto al momento giusto (circa quaranta anni fa), quando la tradizione del canto rituale di questua era da pochi anni apparentemente scomparso, altrimenti oggi, dopo tutti questi anni di silenzio e di abbandono, non avremmo potuto far altro che decretare il “de profundis” e “piangere” sulle “belle” tradizioni scomparse. Invece oggi posso affermare che almeno nell’anconetano, questa tradizione dei canti di questua non si è ancora perduta. Ti dirò di più, attualmente, grazie alle Rassegne ed la lavoro continuo e costante de La Macina sul territorio, assistiamo da alcuni anni, ad una nuova “rinascenza” del fenomeno ed al crescere e proliferare di iniziative (purtroppo soltanto con la “Pasquella”), più o meno spontanee, per lo più imitative, più o meno valide, ma comunque attestante un certo interesse o perlomeno curiosità per il fenomeno.
Quale significato può avere oggi, agli occhi delle nuove generazioni che hanno un rapporto quotidiano con il futuro, la ripresa di un rito, di una celebrazione così legata al passato?
Per la maggior parte delle nuove generazioni, la celebrazione di questi riti può sembrare una cosa anacronistica, vecchia anche “ridicola”. Anacronistica, vecchia, “ridicola” perché la “criminale” disattenzione dei media verso tutto quello che fa parte della nostra tradizione, ha contribuito a creare una generazione senza più memoria, fragile, omologata, addestrata soltanto a comprare, consumare e soprattutto non a pensare. Tutti uguali, tutti allineanti tutti in fila, con il cervello all’ammasso. Il nostro è un paese che ha una singolare vocazione a cancellare la sua memoria. Ma come disse bene il grande, indimenticabile Enzo Biagi: “Chi non ha ricordo e rispetto del passato non ha futuro…”. La cosa assurda e che mi fa imbestialire, è assistere in questi ultimi anni ad un massiccio bombardamento dei mass media (con la incredibile complicità anche ed addirittura di diversi insegnanti) per Halloween (una festa che è lontanissima dalle nostre tradizioni), tanto che si incominciano a vedere in giro, la sera del 31 ottobre i bambini italiani andare per le case con l’ormai fatidica ed anacronistica (almeno per noi) strofetta del : “Dolcetto o scherzetto”. Mentre il nostro vero rito infantile dello “Scacciamarzo” nessuno lo pratica più, se non il sottoscritto con La Macina, che da ormai quasi venti anni, lo ripropone (a fatica) con i bambini di Monsano.
Il tuo rapporto con le istituzioni nel corso degli anni. Hai notato dei cambiamenti o sostanzialmente poco è mutato col passare del tempo?
Con le istituzioni, si è instaurato da diversi anni un rapporto paritario di grande fiducia. Ormai posso dire che sono loro a cercarmi. Tutto il lavoro costante, che ho fatto e che sto facendo ininterrottamente da più di quaranta anni, sul territorio marchigiano, probabilmente sta finalmente dando i suoi frutti.
Il tuo lavoro nelle Marche non è stato da modello a nessun altro in Italia, per lo meno in modo così ampio ed esteso come tu sei riuscito a fare. Credi che l’esperienza marchigiana sia in realtà poco esportabile, e se sì perché, oppure pensi che si tratti soltanto di pigrizia e disimpegno da parte di chi avrebbe avuto la possibilità di seguire altrove il tuo esempio?
Gran bella domanda! Ti riporto soltanto un giudizio che Mario De Micheli (uno dei più grandi critici d’arte italiani venuto per presentare nel 1988, il nostro quarto LP: "Marinaio che vai per acqua..."). Vedendo tutto il nostro lavoro di ricerca e di riproposta ed il lavoro sul territorio con gli informatori e la gran folla entusiasta che aveva stimato fino all'inverosimile il Teatro "Pergolesi" di Jesi per venirci ad ascoltare., mi disse senza mezzi termini, che se in tutte le regioni ci fossero stati gruppi come La Macina, ora da soli, anche senza l'aiuto ed il supporto dei media, avremmo creato un grande movimento dal basso ed avremmo reso davvero popolare quest' "altra" musica, a dispetto e nonostante (aggiungo io) la deplorevole disattenzione degli stessi media. La stessa cosa aveva visto Roberto Leydi, quando nella presentazione al nostro CD: "Je se veda le porte dell'affano...", 1998, aveva scritto testualmente che: "Tra i numerosi gruppi che hanno cercato di animare il secondo folk revival italiano, quello marchigiano della Macina occupa un posto a parte e (a mia conoscenza) unico". Mi sembra che io non debba aggiungere altro, se non che per portare avanti tutto questo, bisogna crederci fino in fondo, fino al limite del sogno e… della “pazzia”.
Dopo così tanti anni, un po’ di stanchezza oppure l’entusiasmo è ancora quello di un ragazzino?
Credimi non so proprio cos’è la stanchezza. Io sto bene solo quando provo, cerco, progetto, canto. La ricerca, il rapporto con la gente, con gli informatori è una continua, inarrestabile linfa, il canto, infine per me è la vita, lo scopo e la gioia di vivere.
Ormai La Macina è un…”cantiere aperto” a tutte le esperienze, a tutte le collaborazioni, a tutte le sperimentazioni (grazie agli attuali ottimi musicisti, splendidi compagni di viaggio). Ti dico pure che a questo punto La Macina vista solo come gruppo di folk revival mi va decisamente stretta. Non rinnegando niente di quello che ho fatto, ormai da diversi anni sento il bisogno di confrontarmi con altri artisti, con altri generi, con altre esperienze. Il mio “orticello” l’ho e curato e coltivato abbastanza, ora voglio provare altre emozioni, altri stimoli, mettermi continuamente alla prova e non vivere di rendita. Solo così credo che una persona si senta viva e continuamente in ascesa.
Quanto ti ha aiutato il lavoro di recupero nel tuo mestiere di cantante con la Macina e viceversa?
Il lavoro di recupero è stato fondamentale, mi ha dato forza, spessore, sicurezza, con gli anni mi ha fatto scoprire ed “usare” al meglio la mia voce, mi ha “legato” alla tradizione ma nello stesso tempo mi ha “liberato” e fatto volare con le mie ali. Ma nello stesso tempo La Macina ha aiutato la tradizione, ha fatto conoscere, e soprattutto accettare alla gente i suoi grandi informatori i veri “misteri bulgari” delle Marche, che ora sono conosciuti ed “amati” alla stessa stregua de La Macina.
Quando all’inizio della carriera la gente credendomi di farmi i complimenti mi diceva testualmente: “Voi sì che siete bravi, non loro” riferendosi ai contadini, alle “filandare, che io portavo come testimoni ed “interpreti” nei nostri concerti, ci rimanevo malissimo. Quello che per la gente era un complimento, per me era un insulto, un’ atroce offesa, un fallimento di tutto il mio lavoro di ricerca. Infatti La Macina non è solo del grande collettivo di musicisti che attualmente la rappresenta (Adriano Taborro, Marco Gigli, Roberto Picchio, Michele Lelli, Riccardo Andrenacci, Giorgio Cellinese) ma è soprattutto di Pietro Bolletta di Monsano, di Lina Marinozzi Lattanzi, Nazzareno Saldari, Domenico Cicciòli, Nazzareno Pesallaccia, Giuseppe Pierantoni di Corridonia e Petriolo, di Armanda Animobono Mancini e di tutte le “filandare” jesine, di Laura Pietrucci Calabresi, Maria Pietrucci le mie zie di Monsano, di Aldo Gobbi, Italo Agnetti e Nardino Beldomenico di Jesi, di Mario Amici di Monte San Vito, di Attilio Mazzieri di Filottrano, di Giuseppe Gasparrini di Appignano, di Pina Piana Marcheselli di Senigallia, di Ireneo Alberti e di tutti gli straordinari cantori e suonatori del “maggio” di Fabriano, in rappresentanza di quel migliaio di informatori che in tutti questi quaranta anni mi hanno accettato, ascoltato, amato e soprattutto donato parte della loro vita, della loro memoria, della loro anima.
Roberto G. Sacchi, Argomenti, Folk Bullettin, Anno XIX. N. 237. Dicembre 2007