Francesco SCARABICCHI, dalla prefazione al CD, "Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto" (Vol. I), 2002
Commedia
La bella, ‘l bon vecchio, Ninetta, la povera Cecilia, ‘na bella fata/ co’ li capelli sciolti e l’occhi neri, la monachella, la guerriera, la Fija del paesà, il Brigante Pietro Masi detto Bellente, Maria sotto la croce, la ninnananna di “Bovi bovi”, la mamma, il convento, la tonaca nera, gli emigranti, le filandare, i figli. Il mondo che emerge, a brano a brano, dalle serenate, dai canti, dalle ballate arcaiche, dai frammenti, dalle nenie da culla, dalle strofe è palesamente quanto di più desueto e lontano da questa contemporaneità che non contempla affatto un teatro del genere, sorta di presepiale museo che annovera, ancora, sentimenti come l’amore, il dolore, la pena, la gelosia, la rabbia, l’ira, la vendetta, il godimento, la sofferenza, la paura, l’onore, la dignità, il tradimento, lo struggimento; che pronuncia il pianto e il riso, che parla della guerra, della fame, del freddo, dello sfruttamento, dello spavento.
Il presente che ascolta la voce di Gastone Pietrucci, insieme con quelle di Rossana Casale, di Giovanna Marini e di Marino Severini, è oltre l’anacronismo del repertorio, quinta di storie disperse e solo di nuovo raccontate dalla pervicace convinzione che vuole, ancora, l’universo mondo segnato dalle stesse tare d’esistenza che attraversavano e ferivano creature appartenute ad ogni ieri del tempo e della storia, ai secoli vicini, da poco scivolati oltre la curva delle epoche e di cui restano l’odore e il suono che solo i profondi, caldi e rauchi fondali di tonalità intense e di marcati caratteri del canto contengono e tramandano fino alla nostra distrazione incurabile, così aggredita da musiche e motivi davvero senza età perché impossibili al senso, alla misura, al gusto e alla bellezza spesso toccata dalla grazia o dallo strazio. Felicemente, orgogliosamente, decorosamente, umilmente non contemporanea, l’opera di Gastone Pietrucci e de La Macina, a toni cupi, ad ombre, a chiaro e a luce, nel taglio radente che si fa aspro, sensuale e lirico, sceglie con fierezza la vita così com’è stata, così com’è, come sarà ad ogni ora di adesso e del futuro, quel tanto di immutabile nel grembo dell’umano che fa identica l’ansia di un adolescente shakespeareano a quella di un coetaneo del terzo millennio, malattia d’amore, attesa, brividi e timori che arrossano le guance e accelerano il cuore. Lo stesso vale per le guerre e per i soldati, “il cibo del potere” dei “brillanti reggimenti”, secondo il Barry Lyndon di William M.Thackeray nella versione filmica di Stanley Kubrick (1975) in cui, in una frazione di minuti, si coglie la sequenza sanguinosa della storia dentro i fili invisibili delle esistenze che appaiono e scompaiono allo stesso modo in cui scendono verso il niente le figure, i personaggi, le comparse dei canti rivolti al e provenienti dal XVIII e XIX secolo, popolo e figli del mondo, tra l’esercito di napoleone, Scarpia, Floria Tosca, fanciulle da marito o da convento, l’impercettibile “senso” che strama e strugge (“[ …] se posso crescere come ‘l tempo vola/ ci ho quindici anni ancora dormo sola”, Il mare è torbido l’acqua è turchina), la consolazione (“[ …] je dissi cosa piangi(ramo de fiori rrose d’amor/ je dissi cosa piangi/ o ragazzina// io piangio pe’ ‘l mio amore/ramo de fiori rrose d’amor/ io piangio pe’’l mio amore/ ch’è andato in guera””, Ramo de fiori rrose d’amor), la disperata rabbia come un riscatto in quel “merica ‘merica ‘merica” reiterato al pari d’una bestemmia in Benediciamo a Cristoforo Colombo (pensiamola, nell’ascolto, sotto la terribile luce di questi anni di “pace terrificante”, secondo l’accezione del De André de La domenica delle salme, nelle migrazioni per le ragioni di sempre – paura, bisogno, fame, povertà, oppressione, distruzione, deportazione -, nell’odore acre della polvere da sparo delle guerre esportate e delle nubi globali delle due torri di settembre). Passione e pietà, ferita e memoria, strada da cui proviene la dolcezza mormorata di un amore o la fatica di vivere, quel “mestiere” del male che, dal Duecento dell’”umile Italia” di Francesco, salendo fino a noi, prosegue come un dovuto seguito per chi è stato, a confermare la vocazione per la ciltà della tradizione e per la tradizione di ciò che, nonostante la cosmetica barbarie, insiste nella sua civiltà che approssima più che può il prima al qui e ora dei viventi. La Macina lavora assiduamente al che e al come della sua opera che traccia un cammino dentro l’anima del canto popolare delle Marche favorendo altri insostituibili apporti che alimentano e nutrono lo spirito assoluto della ricerca e il repertorio di voci, pronunce, suoni, racconti. E’ sempre più la sua ora, confermata non da nostalgie o da sguardi all’indietro per il conforto dell’immutabile paesaggio dell’anima, per l’infanzia perduta, per le parole sepolte, i dialetti, i sapori, il clima d’un sogno dissolto, l’innocenza, i nomi lontani, il padre, la madre, la vita rurale; nulla di tutto ciò rende vivo e vitale il patrimonio di musica e parole che si attualizza proprio per contrasto, per opposizione all’insensatezza di un’idea del vivere privato e sociale sconfitta da se stessa, dalla sua precarietà volgare, dalla sue economica arroganza, dalla sua esasperata “visibilità” e dalla lingua della comunicazione che annulla, consumandolo, l’essere quotidiano là dove l’abuso del sostantivo mito e del suo aggettivo negano ciò che affermano e per fortuna preservano quel che si tace e conserva la sua leggendaria, favolosa, simbolica antichità proprio perché giovane e quindi classico, come il sangue che, goccia a goccia, scende dalla croce cristiana attraverso il lamento e il pianto della voce lacerata e colma di pena di Gastone Pietrucci che perpetua l’icona tragica dell’uomo e del suo sacrificio che non ha fine. Nel segno forte ed arreso della sua arte, La Macina si fa stazione e viaggio di se stessa e continua l’andare del mondo nella virtù del canto, nella sua rigorosa, intransigente verità che tramanda l’ironia e il gioco, la malizia e la semplicità, l’amore, la morte, il tormento, la fatica, il divino, il plebeo, l’osceno, il corpo, le stagioni, i mesi, la cosmogonia e la fiaba dell’unica commedia che ci contiene tutti.
Francesco Scarabicchi, Ancona, 7 Ottobre, 2002
(dalla prefazione al CD, Gastone Pietrucci-La Macina, Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto,Vol. I, 2002)
*** DISCO SEGNALATO DA WORLD MUSIC CON IL BOLLINO TOP CD WORLD MUSIC 2002