Critiche
Allì CARACCIOLO, dalla prefazione al CD, "Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto", (Vol. I), 20002Allì Caracciolo con Moni Ovadia e Gastone Pieterucci
"LA SCRITTURA DEL CANTO" aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto Si può definire aedo un cantante, oggi? L’aedo, antico cantore girovago dall’orecchio attento e sensibile, capace di raccogliere ogni voce che riferiva la memoria, della quale, trasferendola al suo canto, egli diffonde le passioni la forza tristezza ed esultanza. Canto la cui ineguagliabile alchimia trasformava la memoria in storia. Pure, per Gastone Pietrucci la definizione è appropriata, sia in riferimento al suo più che trentennale lavoro di recupero di testi e canti di tradizione orale, sia perché dopo averli raccolti selezionati, schedati, fissati su nastro magnetico, su compact disc etc., egli stesso li interpreta facendosene veicolo di trasmissione. Ma soprattutto appare appropriata per l’animo con cui egli si fa interprete, per il rapporto di somiglianza che il suo canto instaura tra la modernità ed il mito. Dimostrando che, pur in tempi di comunicazione telematica ed informazione tecnologica sofisticatissima, il fondamento dell'uomo è ancora l'uomo, la sua storia, la sua dolorosissima e radiosa vicenda di esistere. Ciò appare comprovato non solo dalla qualità del suo lavoro e del canto, ma anche dalla sua stessa vocalità, strumento raro per internarsi nelle pieghe profonde di una cultura che, all’apparenza semplice, risulta articolatamente ricca e complessa. Il colore della voce apre subito sui paesaggi di una malinconia stanca e vitale, così come di una vitalità esplosiva e malinconica: due anime congiunte che non si contraddicono annullando l’una la ragione d’essere dell’altra, ma si intrecciano intersecando itinerari e vie in una geografia piana e labirintica, traversata da tempestose assolazioni, da bui refrains di isole incastonati negli ardenti mezzogiorni, da ondeggiate distese d’orizzonti. Il risuonatore gutturale, che distingue e qualifica la sua vocalità, eccede le funzioni mediatiche del canto e si fa segno, torpido e sensuale, perdita di confine tra il pianto e l’eros. Indistinzione. Sì che l’uno a tratti si con-fonde nell’altro, in una tessitura che è dissolvenza continua di sensazioni e livelli emozionali, di implicazioni di senso. La parola talvolta viene interrotta al mezzo dalla ripresa di fiato, fenomeno frequente nel fraseggio popolare, che pone i fiati non secondo la strategia prestabilita che la perizia tecnica imporrebbe, ma nel punto in cui l'empito si esaurisce o si renda necessaria una più consistente inspirazione. Ma la spezzatura operata da Pietrucci va al di là del filologico conformarsi ad un modo di cantare. Essa è frantumazione dell’intero. È interruzione di senso. A vantaggio di ‘altra’ produzione di senso. Quella interruzione istituisce una frattura all’interno delle possibilità di comunicazione logica, traccia una crepa nella lucidità razionale del rapporto parola significato, dichiarando fratta quell’unità per una comunicazione che può avvenire solo attraverso spezzoni (forse frammenti), e che fa, di questi, portatori di un senso insolito, emozionale, diverso dalle parole. Le quali, decadute dalla geometria originaria, si coniugano e contaminano con altri elementi alla ricerca di una diversa motivazione semantica che le attesti come esistenti, riscattandone la legittimità comunicativa. Anche gli accenti partecipano di questa flessione di senso verso l’avventura di una lingua delle suggestioni. Frequentemente, nel canto, l’accento cade sulla sillaba non tonica, perché è il segno del numerus, di un ritmo più quantitativo che qualitativo, che privilegia, ancora, l’andamento della scansione all’interno della misura, rivelandosi l’esteriore manifestarsi di un ritmo interno che, come in un invasamento, in una sublime manìa, anima la voce e la piega al suo flusso. I frequenti glissando avvallano la parola in voragini di malinconia e di eros, abissi di senso in cui la vertigine del testo sprofonda nell’ignoto. Allo stesso le desinenze finali si spengono in una fonazione interrotta, anzi interiore che non materializza più il suono se non in una emblematica, quasi larvale, fonazione gestuale afonica. Simulacro di suono. La pronuncia e scansione sillabica piegano ad una sorta di deformazione della parola che ne ricava, al contrario, una complessa dilatazione espressiva. L’intero fraseggio è una partitura della decostruzione. Ne risulta un canto che è decostruzione esso stesso, all’atto in cui costruisce una sintassi nuova, a disciplinare una diversa semantica. È qui che il nuovo lessico diventa comprensibile e chiaro come una lingua depositata nella cognizione da sempre, posseduta in ogni sua sfumatura, accezione, variazione di senso. È in tale dimensione che il canto diventa scrittura. Una scrittura insolita che coniuga l’anima popolare alle pulsioni ancestrali sulla soglia dell'esistenza, recuperandole, in un raro impasto di creatività e filologia, proprio all’interno di quell’anima. Questa ne emerge deprivata del divertissement di sapore folkloristico -colorito tono minore che spesso si attribuisce a culture ritenute, erroneamente, ancillari-, per esaltarsi nella sua forza primitiva e primordiale, quasi barbarica, o flessa nelle esuberanti regioni di amore e passioni, di riso e morte, attuata nei ritmi palpitanti quasi orfici, nelle ossesse accumulazioni dionisiache delle strofe iterative, dove il riso assume anch’esso la sfrenata forza di una danza bacchica, di un forsennato fescennino. E la stanca malinconia della voce, roca di pianto di rabbia di sensualità di riso, assembla i fratti fonemi in una unità che sovrasta qualunque significato del testo per attingere ad un senso superiore, quello del canto puro, della vocalità non più veicolo di senso, di parole e armonie, ma senso parola armonia essa stessa: e si intuisce che quella vocalità, quella modalità di canto, è essa stessa il significato. L'uso di essa, pertanto, costituisce il livello semantico ulteriore rispetto a quelli del testo esaltati dalla partitura musicale. Attraverso la sua scrittura, la vocalità crea una sorta di sistemazione delle cose, del loro spazio e reciproca suggestione dialogica. costruendo una vera e propria drammaturgia della voce. Due esempi: Sotto la Croce Maria è un momento di ‘stile alto’ attraverso cui si qualifica la tragedia. Qui l’epos e la forza drammatica raggiungono toni elevatissimi in una interpretazione, sia vocale che musicale, che nel cogliere il fondo oscuro del dolore, ne restituisce lo strazio sedimentato nel corso della storia, in un crescendo di tragicità teatrale quasi greca. La ballata del brigante Pietro Masi detto Bellente è divenuta, rispetto al canto epico popolare del cantastorie originario, la cupa vicenda che si snoda come sotto l’artiglio di un fato ineluttabile, tra epos e tragedia. I musicisti de La Macina (meglio sarebbe dire Musici) attestano fedeli questa complicità lungimirante che orienta il loro valore verso una ricerca compatta con quella vocale, indagando, nella parabola musicale, se il punto in cui una nota, congiungendosi all'altra, crea la melodia non possa essere anche il punto di lacerazione in cui la stessa nota si dilata in urlo, si allenta in pianto, si rompe nella sospensione del dramma. Gastone Pietrucci: un canto che pur rivelandosi carico di uomini e di eventi, si leva solitario alle pacatezze lunari dei notturni, fino a risuonare eco nel vuoto cosmico. Ascoltarlo è percorrere i deserti della voce con l’erompente cognizione dell’incontro. Allì Caracciolo, in Macerata, il 27 di Settembre del 2002 (dalla prefazione al CD: Gastone Pietrucci-La Macina, "Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto" (Volume I), 2002
*** DISCO SEGNALATO DA WORLD MUSIC CON IL BOLLINO TOP CD WORLD MUSIC 2002 |
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